Bhagavadgītā. La voce silenziosa che lascia il segno, Gianni Pellegrini, Università di Torino

 


di Gianni Pellegrini

Docente di Lingua e letteratura sanscrita e filosofia e religioni dell’India, Università di Torino


Da anni studio e rifletto sulla Bhagavadgītā e sui suoi commenti, in sanscrito e in altre lingue indiane, nonché sulle varie traduzioni che dal 1785 si sono avvicendate.

Da oltre 15 anni cerco di insegnare il testo sia ai miei studenti di filosofia e religioni dell’India, sia a quelli di lingua e letteratura sanscrita. Il tentativo che ho intrapreso è di rendere il testo fruibile a un pubblico più ampio possibile, un pubblico lontano per tempo, spazio e cultura, dall’alveo originario in cui la Bhagavadgītā venne redatta. Ecco perché insieme alla filologia del testo, cerco di captare il non-detto, quella voce silenziosa che può lasciare un grande segno.

No, non si tratta di spicciola volontà di semplificazione, bensì dell’urgenza di adattare un testo prezioso alle esigenze dell’essere umano contemporaneo, perso senza sapere d’esserlo.

Sta di fatto che la Bhagavadgītā più che un semplice testo (databile tra il III e il II sec. a.C.), è un vero e proprio insegnamento, un insegnamento senza tempo, perché valido da sempre per ogni circostanza cruciale dell’esistenza.

In effetti, la trama è presto detta: un essere umano ­ – Arjuna – su uno sterminato campo di battaglia. Ma, sebbene sia in procinto di combattere una guerra, la lotta più terribile, sarà interiore, una lotta con la nudità della vita, spesso spietata. Egli è lì, frammentato da un terribile dubbio, un bivio esistenziale che via via lo lacera a tal punto da angosciarlo profondamente, renderlo completamente immobile all’esterno e in balia di un inarrestabile turbinio di pensieri e sentimenti all’interno, capace dunque di minare ogni sua capacità. Deve scegliere, combattere o no…? Ma la sua lotta, la vera guerra si combatte all’interno. Per scegliere, deve ritrovare equilibrio, stabilità…

Ovviamente, trovarsi dinnanzi a una scelta straziante è ben più che un’eventualità per ognuno di noi umani: è quasi una certezza! Sì, perché a qualsiasi latitudine, in qualsiasi epoca, usino un carretto trainato da buoi oppure l’apple watch, gli esseri umani – fatti ovunque dello stesso materiale interiore ed esteriore – sono sferzati sempre dai medesimi problemi e, dunque, ovunque mettono in campo reazioni analoghe.

La Bhagavadgītā è il racconto poetico e filosofico della via che condurrà l’umano Arjuna a ritrovare la sua visione e uscire dalle sabbie mobili del dubbio, a operare una scelta sicura senza voltarsi indietro, prendendo la via più adeguata.

In effetti, all’inizio del suo commento al testo, Śaṅkara (VII-VIII sec. d.C.) autore della più antica tra le glosse pervenuteci, ci dice che Arjuna non è solo un grande guerriero, principe dei Pāṇḍava, di cui si legge da secoli, ma è ben di più…

Arjuna è l’essere umano tout court, con le sue debolezze, paure e angosce, capace però di superare la propria condizione di disagio e pervenire a una condizione di equilibrio, di trasformazione e rinnovata visione, chiara e penetrante, a patto che prenda atto delle proprie debolezze e cerchi di superarle convivendoci. La trasformazione dell’umano parte dalla presa d’atto dei suoi malanni: solo il malato che sa di essere tale può arrivare a una guarigione…

Ma per far ciò egli ha bisogno di medico, di una guida, funzione che nella Bhagavadgītā è svolta da Kṛṣṇa!

Si tratta di momento davvero radicale, espresso attraverso il dialogo tra un maestro che è Dio e un discepolo che è l’uomo. Ecco perché la Bhagavadgītā è testo di dimensione universale, ricco e complesso, ma simultaneamente semplice e immediato: cortocircuitante!

L’insegnamento di Kṛṣṇa prende forma radicandosi attraverso l’intera vita e si pone come risposta a molteplici interrogativi. Ecco perché la Bhagavadgītā è un appello calato nel quotidiano: parla di lotte esteriori e interiori, di dubbi e sofferenze, nonché del bisogno profondo di aggrapparsi a una voce saggia.

Come dall’alto della sua sofferente sapienza aveva ben colto Simone Weil, la suprema bellezza di questo insegnamento è che ogniqualvolta la si legge essa si rinovella. È inesauribile, sempre attuale e puntuale. Non è un pedante trattato filosofico o un manuale teorico, ma un dialogo tra l’uomo e Dio, un’aspirazione atemporale, la cui eco si rifrange in ogni fase dell’esistenza.

Allora, immaginate il mio stupore nel vedere che tutto quello che ho cercato di capire, di interpretare, di leggere tra le righe, i doni che ho attinto in virtù della riflessione sulla Bhagavadgītā, prendevano una forma semplice e vivace, inclusiva e divertente, coinvolgente e dunque commovente al Grande Teatro di Lido Andriano, al CISIM, non sulla piana del Kurukṣetra, ma tra i lidi ravennati.

C’era proprio tutto, tutto quello che amo… Pensate anche alla mia meraviglia nel ritrovare l’amata Simone Weil, interpretata magistralmente… Chirurgici i narratori. Toccanti le musiche, da rapimento (Francesco Giampaoli & Co.); la pluralità degli Arjuna, trovata scenografica capace di concretizzare il fatto che tutti gli umani sono Arjuna. Gli adorabili Kṛṣṇa bambini, così azzeccati nei loro ruoli, così stupefacentemente consapevoli, accompagnati da un grande Kṛṣṇa, Luigi Dadina Dulcis in fundo, un Gandhi-gemello distinguibile dall’originale solo per un delizioso accento romagnolo: da shock culturale!

No no, non è certamente una ricostruzione filologica quella di Tahar Lamri e Luigi Dadina e gli altri, ma una brillante lettura esperienziale, che scava negli interstizi del testo e delle vite, nel non detto o nel non completamente elaborato. Non è una resa della lettera, ma una chiave essenziale di un contenuto abissale, senza confini e barriere di cultura e disciplina.

Non so quale parte mi sia piaciuta di più… Tutto troppo ben orchestrato e intrecciato per scegliere qualcosa a scapito di altro. Opera dunque omogenea, che fa immergere nella narrazione, attraverso vari passi, con intermezzi musicali che conducono a momenti ancora più profondi, in una sorta di spirale che approda a un centro stabile.

Unico mio rammarico: non aver visto anche le altre serate….

Allora, non mi resta che ringraziare tutti: Jacopo Gardelli (che mi ha invitato), Federica Vicari (che mi ha guidato), Tahar, Luigi, Marco, Lanfranco, Albino e tutti le ragazze e i ragazzi che mi hanno dato prova commovente e tangibile della ricchezza ed estrema attualità della Bhagavadgītā, mettendone in scena un meraviglioso commento, un commento che ancora non avevo studiato…

Molto altro vorrei dirvi, ma basti la mia amicizia per testimoniarvi la stima e la gratitudine per il vostro regalo.

Non so come sdebitarmi, se non augurandovi di essere ancora mille volte Arjuna e, dunque, di trovare sempre il vostro Kṛṣṇa…


yatra yogeśvara kṛṣṇo yatra pārtho dhanurdharaḥ |

tatra śrīr vijayo bhūtir dhruvā nītir matir mama || Bhagavadgītā 18.78 ||

Laddove è il Signore dello yoga, Kṛṣṇa, laddove il figlio di Pṛthā, l’arciere [Arjuna], proprio là sono fortuna, vittoria, prosperità e una condotta politica sicura: questo io credo!




Gianni Pellegrini

Docente di Lingua e letteratura sanscrita e filosofia e religioni dell’India, Università di Torino


Commenti

Post più popolari