“Il verbo degli uccelli”, la magia del poema sufi (e del teatro collettivo) al Ravenna festival, Tahar Lamri, Left



«Potrei avere un microfono ad archetto? È da sempre il mio sogno!», dice Noemi, di professione parrucchiera, una volta salita sulle spalle di Nicolò Kurshumi in arte DonKoro, elettricista e bravo rapper a tempo perso, per fare la parte del pavone.«No. Non abbiamo molti soldi per quel tipo di microfono, siamo un teatro comunitario, abbastanza squattrinato, direi», risponde il regista Luigi Dadina.
E quando il nostro giovane e promettente artista Nicola Montalbini, armato di pennarelli, comincia a “tatuare” sui volti e sulle braccia dei nostri attori dei segni in caratteri arabi per identificare i vari uccelli, Hamza, un richiedente asilo somalo, si avvicina a me e comincia a bisbigliare bismillahi errahman errahim (in nome di dio clemente e misericordioso), formula che usano i musulmani per scacciare pericoli o un assalto di presunti diavoli, allora gli chiedo «cosa succede Hamza?» e lui ribatte «cosa è questa magia che state praticando?». «No, Hamza, non è magia. È che non vogliamo ricorrere a delle maschere, allora abbiamo optato per leggeri segni…». «Ah, pure le maschere! Audu billahi! dio ce ne scampi!». Arriva alla riscossa Wajih, un richiedente asilo tunisino: «Ma che dici Hamza, questo si chiama teatro, non magia! Mi sa che non sai niente di teatro!».
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