Panchatantra o le mirabolanti avventure di Kalila e Dimna

 di Tahar Lamri


Alcune opere hanno destini eccezionali. Nati in un dato luogo, in un dato momento, attraversano secoli su territori immensi, perché portano dentro di sé un pensiero universale. Dall’India del Brahmanesimo, passando dai territori della Persia zoroastriana e quelli arabo-islamici, alla Francia di La Fontaine; dalle iconografie dei templi del Karnataka, passando dalle miniature islamiche, allo zooforo del battistero di Parma: così si potrebbe riassumere il destino del famoso libro chiamato Panchatantra, un'opera, tutto sommato, impossibile da illuminare in un'unica luce e da contenere in un unico discorso.

Il Panchatantra, cioè “Cinque libri, cinque trattati, cinque occasioni di saggezza” è una raccolta indiana di racconti di animali, formatasi intorno al III secolo. Uno dei testi letterari più diffusi e tradotti al mondo. L'opera originale in sanscrito è andata perduta, ma il suo contenuto e la sua forma si sono conservati e spesso trasformati in più di duecento versioni diverse, in più di cinquanta lingue.

In India si conoscono almeno venticinque versioni, sia in sanscrito che in dialetti vernacolari, molti delle quali subirono ricostruzioni radicali, con omissioni, variazioni di testo e aggiunte completamente nuove.

Trentacinque dei racconti di animali derivano da due tradizioni sanscrite: quelle recensioni attribuite a Vishnu sharman1 (la versione settentrionale) e Vasubhaga2 (la versione meridionale). Quest'ultima tradizione, sopravvissuta nel Panchatantra di Durgasimha3 (1025–31 d.C. circa) scritto in Kannada, dialetto originario del Karnataka, e nel sanscrito Tantropakhyana (prima del 1200 d.C.), si diffuse in Thailandia, Laos e Indonesia. Diciotto delle storie conosciute in India si trovano anche in Indonesia. 

La versione sanscrita di Vishnu sharman, di epoca sconosciuta (variamente datata tra il 1200 a.C. e il 300 d.C.), fu tradotta in diverse lingue e trasmessa in Persia, Egitto e Siria e successivamente in Europa. 

Questa raccolta di favole moralistiche, è conosciuta come un libro destinato a insegnare la saggia condotta umana, la saggezza pratica o l'arte di governare (rispettivamente definiti in sanscrito come niti e artha) basato su una filosofia di vita pragmatica. L'introduzione al Panchatantra sanscrito, presumibilmente nella sua forma originale, racconta che un re chiamato Amarashakti, esperto in tutte le arti, rimase deluso perché i suoi tre figli erano sciocchi e ignoravano gli insegnamenti di Artha Shashtra (trattato di scienze politiche, economiche e strategia militare, attribuito a Kautilya4, 300 a.C. circa). Chiamò un anziano Brahmino di nome Vishnu sharman, il quale promise che i figli sarebbero stati completamente esperti nella scienza di Artha entro sei mesi, e procedette a insegnare loro sotto forma di storie, che presumibilmente raccolse in cinque libri di cui il nome Panchatantra. 

Le cinque storie principali sono "Il leone e il toro", "L'amicizia fra la colomba, il corvo, il topo, la testuggine e la gazzella", "I gufi e i corvi", "La scimmia e il cervo". il Coccodrillo” (che poi diventerà una tartaruga), e “Il Bramino e la mangusta” (o “L’asceta e la donnola”).

Queste cinque storie cornice e i racconti aggiuntivi da loro introdotti sono stati definiti da titoli tematici:

1. Mitra bheda (La perdita o la separazione degli amici); 

2. Mitra samprapti  (L’acquisizione di amici); 

3. Kakolukiyam (Corvi e gufi o Guerra e pace); 

4. Labdhapranasam (Perdita di profitti); 

5. Apariksitakarakam (Azioni avventate).

La prima traduzione dal testo sanscrito originale fu quella di un medico di corte persiano di nome Borzoe. Eminente medico conoscitore del sanscrito tradusse il Panchatantra in pahlavi o medio persiano. La sua traduzione è andata perduta ma è conosciuta attraverso la più antica versione esistente in una traduzione siriaca, eseguita tra il VI e il VII secolo. La versione siriaca sostituì il Bramino dell'originale con un filosofo, che prende il nome Bidpai nei testi arabi. 

La storia, che probabilmente fungeva da prologo autobiografico, racconta che il re mandò Borzoe in India per cercare un elisir rasayana da "rasa" (essenza) e "ayana" (cammino), (da qui l’invio di un medico), estratto da erbe dell'Himalaya, capace di resuscitare i morti. Ma quando si rivelò inefficace, un filosofo spiegò a Borzoe che l’elisir era in verità un libro e interpretò l’allegoria così: “Le alte montagne erano gli uomini saggi e dotti di elevato intelletto: gli alberi e le erbe i loro scritti virtuosi e la saggezza estratta da questi scritti l’elisir di lunga vita che ravviva l’intelligenza morta e seppellisce i pensieri degli ignoranti e degli incolti.”5 Borzoe riportò una copia del libro al re, che rimase molto colpito dalla sua saggezza. 

Nello Shah Nameh (Libro dei re), Abu l-Qasim Ferdowsi6 (Tus, 940-1020), racconta che il re sassanide Cosroe Anushirvan7 (Ardestan, 501 circa – Ctesifonte, 579) inviò Borzoe alla ricerca della pianta, ma scoprì il libro, che gli fu permesso di leggere ma non di copiare. Dopo essersi impegnato a imparare il testo a memoria, lo trascrisse in pahlavi e lo inviò al re, chiedendo di essere menzionato in tutte le copie del libro. In questo libro sono raccolti cinque racconti del Panchatantra e tre storie aggiuntive tratte dal dodicesimo libro del Mahabharata – “Il topo e il gatto”, “Il re e l’uccello” e “Il leone e lo sciacallo”. Le dieci storie sono collegate da una trama che non ha origine nel Panchatantra, in cui ciascuna storia è raccontata dal saggio filosofo Bidnag (in seguito Bidia, Bilpay o Pilpay) in risposta alle domande poste da un re indiano.



È difficile dire che Burzoe abbia tradotto le sue storie da uno o più libri indiani, i testi tradotti erano sparsi in diversi libri, alcuni di essi si trovano nel Mahabharata, altri nel Panchatantra e altri ancora nell'Hitopadesa. L’orientalista tedesco Theodor Benfey afferma che gli apologhi non sono stati tradotti in pahlavi da un unico libro, ma da diversi libri e che quando Burzoe fece la sua traduzione, li raccolse in un unico libro8.

Ma la fortuna dell’opera e la sua ampia diffusione e trasmissione in Occidente, si deve sopratutto al persiano zoroastriano convertito all'Islam, Abdallah Ibn Al-Muqafa’9 (morto a Bagdad nel 757), il quale più che una pura e semplice traduzione, riadatta e rielabora il testo pahlevi in lingua araba con il titolo Kitab Kalila wa Dimna (Il libro di Kalila e Dimna), essendo Kalila e Dimna i due sciacalli protagonisti del primo capitolo. 

L’opera di Ibn al-Muqaffa’ diventerà la base per tutte le traduzioni, orientali e occidentali. A partire dal X secolo emersero adattamenti in persiano, greco, ebraico e castigliano, e fu attraverso questi che l'Occidente medievale entrò in contatto con l'opera di origine indiana.



Una delle prime traduzioni occidentali fu fatta intorno al 1080 da Simeon Seth, un medico di Antiochia, al servizio dell'imperatore bizantino Alessio Comneno. Il libro è trasposto dall'arabo al greco con il nome Stephanites kai Ichnelates. Da esso nacque una traduzione tardo latina, Specimen sapientiæ Indorum veterum, realizzata a Roma da padre Poussines (1606-1686). Si deve ad un certo rabbi Joel la più antica traduzione in ebraico che risale probabilmente alla prima metà del XII secolo. Un secolo dopo, Jacob ben Elazar (morto nel 1233) ne produsse una nuova, sempre dall'arabo ma rimane senza posteri, mentre il primo diventa il supporto per la versione realizzata da Giovanni da Capua, che traspose il testo dall'ebraico al latino nel XIII secolo a Roma. Intitolata Directorium humanae vitae alias Parabola antiquorum sapientum, la raccolta fu poi adattata in tedesco da Anton von Pforr intorno al 1470, poi in spagnolo con il titolo Exemplario contra los engaños y peligros del mundo nel 1493. Quest'ultima versione fu distribuita in italiano attraverso le opere di Agnolo Firuenzola (La prima veste dei discorsi degli animali, 1548 circa) e Anton Francesco Doni (La moral filosophia, 1552). Dal tedesco, le traduzioni in olandese, danese e islandese, contribuendo così alla diffusione del testo in tutto il Nord Europa.

A Toledo, il futuro re Alfonso X di Spagna, fa tradurre la raccolta dall'arabo al castigliano intorno al 1251 con il nome Calila e Digna. Di ritorno dalla Spagna, un chierico o un nobile lo offrì a Jeanne de Navarre, moglie di Philippe le Bel, e su sua richiesta, il medico Raymond de Béziers si impegnò a tradurlo in latino con l'aiuto dell'opera di Giovanni da Capua. Ma la regina muore prima del suo completamento e il libro Fabula romanensis di Calila e Dina viene donato al marito.

In Italia, a brani a brani le favole indiane ritroviamo in Boccaccio, in Poggio Bracciolini, in Matteo Bandello.

Ibn Al Muqaffa’aggiunge, nella sua traduzione, quattro prefazioni o capitoli introduttivi per descrivere, nel primo, il contesto dell'opera iniziata dal saggio indiano Bidpai, nel secondo, la trasmissione del libro al regno sassanide e la traduzione di Borzoe, nel terzo, la necessità di comprendere i significati nascosti trasmessi attraverso il linguaggio degli animali e, nel quarto l’elogio di  Borzoe, con episodi della sua vita. 

Racconta la storia del viaggio del medico in India, inviato dal re sassanide per ottenere il Kalila wa Dimna, un tesoro nascosto dai re indiani che conteneva i segreti del loro saggio governo. 

“Tra i motivi per cui fu copiato questo libro, e fu portato dai paesi dell’India al regno di Persia, ci fu il desiderio di Dio altissimo ispirato a Cosroe Anushirvan figlio di Qubadh, tra i più eccelsi re di Persia per sapere, saggezza e retto giudizio, tra coloro che maggiormente si impegnarono nello studio dei segreti della scienza e della cultura (…)

Mentre egli era al culmine della sua autorità regale e in tutto lo splendore del suo potere, gli giunse notizia che in India c’era un libro composto dai dotti, ed elaborato dai saggi, e acconciato da gente di intelletto, nel quale in distinti e diversi capitoli si affermavano cose mirabili facendo parlare gli uccelli, gli animali selvatici e le bestie feroci, i leoni, i rettili ed ogni altro animale che striscia sulla faccia della terra; un libro su ciò che i re devono conoscere per governare i sudditi, venire incontro alle loro necessità e trattarli con giustizia (…)

Risoluto e deciso, progettò di inviare qualcuno alla ricerca del libro di Kalila e Dimna, perché lo copiasse, (…) volle scegliere nel suo regno e fra i suoi dotti, e nessuno trovò più adatto allo scopo di Burzoe figlio di Adharhirbad. Era costui fra i migliori medici di Persia. (…) Cosroe lo mando a chiamare e gli disse: “Ti inviamo in India perché ci è giunta notizia dell’esistenza di un libro, presso regnanti e uomini di scienza. Vai dunque alla sua ricerca e metti a profitto dolcezza, calma e cortesia.”

I quattordici capitoli di storie di animali erano considerati sagge istruzioni per governare il regno e i suoi sudditi. Ibn al-Muqaffa’ ha ampliato l'aspetto morale aggiungendo il processo di Dimna e la sua punizione, assenti dal Panchatantra. Ha anche aggiunto nuovi capitoli come “L’eremita e l’ospite”, “L’airone e l’anatra” e “L’anatra, la volpe e l’airone”. Il Kalila wa Dimna di Ibn al-Muqaffa fu ampiamente copiato e tradotto nel Medioevo e fu determinante nello sviluppo del genere artistico di prosa araba noto come adab10. 

Nelle quattro introduzioni e presentazioni del libro, Ibn al-Muqaffa‘ definisce un'arte di scrittura specifica delle favole che richiede un'arte di lettura basata sulla navigazione tra due strati di significato. Questa dicotomia (apparente/nascosta) si dispiega su due livelli. Là il significato apparente dipende dalla scelta della forma letteraria della favola, forma divertente che delizia i giovani, cattura la loro attenzione e porta la loro immaginazione in un viaggio nel mondo animale e nello spazio della giungla. Il secondo significato riguarda il contenuto filosofico, lezioni di etica e di politica e regole di vita (adab) che il lettore informato può interiorizzare a forza di meditare ogni favola e ogni parola come stabilito da Ibn al-Muqaffa’. Solo i giovani o gli ingenui, dice Ibn al-

Muqaffa’, sono autorizzati a limitarsi alla superficie del testo. Politici e saggi – che sono chiamati, secondo l’antica prospettiva, a esercitare un ruolo politico determinante – devono deviare la loro attenzione dalla forma e avere gli occhi fissi sul significato sepolto nella favola. Quell'idea

costituisce un leitmotiv spesso illustrato stabilendo un parallelo tra il significato nascosto

e il bene o il tesoro: se il lettore di Kalila e Dimna non accede al significato nascosto, lo sarà

come chi ha un tesoro a portata di mano, ma rischia tuttavia di non accedervi, o come il pescatore che avrebbe potuto avere una perla di inestimabile valore, se non fosse stato per la sua mancanza

di conoscenza e sapienza. La metafora del velo che deve essere delicatamente scostato per cercare i frutti o i tesori che nasconde conferma l'idea che la scelta della forma letteraria della favola mira a trasmettere meglio il contenuto filosofico che potrebbe scoraggiare lo studente se fosse stato presentato diversamente.

 “Questo è il Libro di Kalila e Dimna. Esso consta degli exempla e dei racconti composti dai dotti dell’India, in uno stile il ppiù perfetto possibile, conformemente all’intento che si erano prefissi. E infattile persone d’intelletto hanno sempre tentato, in ogni epoca, di farsi capire impiegando allo scopo ogni artificio retorico, e cercando di evidenziare il loro pensiero con l’ausilio di finzioni letterarie. Proprio ciò li ha indotti a comporre questo libro, nel quale hanno presentato la quintessenza di un discorso persuasivo e costruito con arte, facendo parlare gli uccelli, gli animali selvatici e le bestie feroci. A questo espediente li decidevano due motivi: da un canto la possibilità di esprimersi liberamente, dall’altro il fatto che il libro ammaestrava dilettando, tanto è vero che i sapienti lo sceglievano per la saggezza ivi contenuta, i meno dotati di intelletto solo per trarne diletto”

L’ambito in cui si svolge la maggior parte delle favole è caratterizzato dallo spazio della giungla, dal dominio delle pulsioni animali di fame, conservazione di un territorio, aggressione o risposta a un attacco e riparare un'ingiustizia. Gli impulsi che guidano i protagonisti sono profondi, elementari. La maggior parte delle favole sono costruite intorno ad un antagonismo, ad un conflitto; spesso raffigurano lotte di potere asimmetrici e riflettono la presenza di pericoli di cui occorre liberarsi pena la perdita della vita. Impulsi e passioni sono le forze che spingono questi esseri ad agire, la lotta che anima i protagonisti ricorda uno spazio sull'orlo del caos, un universo crudele dove l'armonia, la pace e la concordia non possono avere posto. Ne "Il leone e il toro", ad esempio, la trama potrebbe essere ricondotta all'ambizione e al desiderio di gloria che spinge Dimna prima del suo ingresso a corte; poi arriva la rivalità con il toro che spinge Dimna a macchinazioni e intrighi, i quali trasformeranno il rapporto di amicizia tra il leone e il toro in un rapporto basato sulla diffidenza e sull'ostilità.

Nonostante la presenza di queste realtà, questo spazio non è meno attraversato da modalità di organizzazione “umana” e “razionale”: si tratta, ad esempio, di legami politici organizzati, con un re (il leone) al vertice e una corte, consiglieri, ministri e soggetti. Lì troviamo un tribunale che amministra la giustizia (il processo di Dimna), legami di amicizie molto forti che si formano anche tra esseri opposti e naturalmente condizionati dall’essere uno il mangiatore e l'altro il cibo. Allo stesso tempo, le favole dipingono l'immagine di bestie abitate da preoccupazioni e ideali umani come la virtù, la prudenza, il desiderio di avere una buona reputazione, uguaglianza e giustizia.

L'autore ha trasposto l'universo umano nel bestiario per poterlo meglio fare descrivere la natura degli uomini. Spazio selvaggio umanizzato o giungla sorvegliata, il bestiario è lo specchio della natura umana di cui mette a nudo le passioni e le inclinazioni. Allegorismo animale che ci permette di rappresentare un universo dove l’animalità è riportata nel cuore della vita umana e dove, viceversa, gli animali sono investiti dalle preoccupazioni degli uomini. 



Uno sciacallo (Dimna), ambizioso e desideroso di fare carriera politica cerca di avvicinarsi al re degli animali, il leone. Raggiunge i suoi obiettivi e diventa uno dei suoi amici più cari. Un giorno il leone udì il muggito di un toro. Preso dalla paura, ritiene che questa voce sia quella di un rivale presente sul suo territorio; Dimna interviene per rassicurarlo, sperando così di ottenere maggiori favori dal re. Riesce nella sua attività e se ne va alla ricerca di questa voce che spaventa tanto il leone: è un toro, di nome Shanzaba. Dimna cercò semplicemente di rassicurare il leone, mostrandogli che le sue preoccupazioni non erano fondate. Ma il leone scopre nel toro tutte le qualità di una persona esemplare e un buon consigliere; Shanzaba prende subito il posto di Dimna. Spinto dal desiderio, quest'ultimo metterà a punto un'intera strategia basata su bugie, macchinazioni e manipolazioni per liberarsi del toro. Raggiunge il suo obiettivo provocando uno scontro tra i due amici che finirà con la morte di Shanzaba. Questo capitolo illustra l’importanza delle passioni (ambizioni eccessive e sentimenti irrazionali di Dimna, invidia, gelosia) all'interno del potere e soprattutto nella costruzione del la relazione ostile. Dimna, e questo è il tema principale della favola, ha sovvertito il rapporto dell'amicizia grazie al cieco sentimento che lo spingeva a godere esclusivamente dell'amicizia del leone.

L'apertura del libro di Kalila e Dimna con questa storia attira l'attenzione sul fatto che il cuore del potere è teatro di inimicizie e amicizie, di alleanze e rovesciamenti, di intrighi e macchinazioni derivanti principalmente dal sentimento di invidia e dal suo potere sovversivo. Tuttavia, sebbene sia costantemente all'opera, il sentimento di invidia è fermamente condannato come risulta dall'appendice, “il processo di Dimna”, aggiunto da Ibn al-Muqaffa’ per servire da lezione sulla miserabile fine dell’invidioso. 

La base della storia è costituita dalle conversazioni tra i due sciacalli: Kalila (Karataka in sanscrito) funge da confidente del vile ed efficiente Dimna (Damanaka in sanscrito), che è il personaggio principale. Le conversazioni tra loro e con gli altri due sono interrotte da racconti destinati a dare pieno vigore all'argomento: tanti esempi potenti di ciò che il narratore vuole trasmettere. Un esempio concreto vale più di un discorso teorico. Siccome Dimna è il protagonista, è principalmente lui che racconta storie ai suoi tre amici: 5 storie a suo fratello (che gli risponde con altre 5 storie), 3 al leone, 2 al toro il quale in cambio gli racconta una storia. In totale, 16 storie, alcune delle quali ne contengono altre, quando i personaggi di una storia iniziano a illustrare il loro discorso con una storia.

Così, quando il vile sciacallo viene a trovare il toro, per illustrare anche la necessità della prudenza quando si ha il potere, gli racconta la storia della sfida che un uccello chiamato titawa11  lanciò all'Oceano. Gli eroi di questa storia sono una coppia di uccelli titawa. Ora, per dare confidenza alla sua femmina, il maschio le racconta due storie: la famosa storia della testuggine sollevata in aria da due cigni, e quella dei tre pesci; al che la femmina risponde con la storia degli animali uniti contro l'elefante. Si tratta quindi di tre storie che trovano il loro posto all'interno della storia degli uccelli titawa raccontata da Dimna al toro. Tuttavia, Dimna e il toro sono essi stessi personaggi di un racconto, poiché l'introduzione a questo primo capitolo lo presenta come un'opera prodotta da un saggio bramino per l'educazione dei tre figli del principe. In modo che il lettore, quando legge la storia della testuggine e dei due cigni, sta ascoltando una storia raccontata dall'uccello titawa, ma la storia dell'uccello titawa è raccontata dallo sciacallo Dimna, e questo la storia dello sciacallo Dimna è raccontata nel libro scritto dal saggio. Inoltre, troviamo in tutto il libro, in bocca a tutti i personaggi delle storie per sottolineare questo o quel punto.

Il Panchatantra e in seguito Il libro di Kalila e Dimna non è una semplice raccolta di favole dove le storie si susseguono una dopo l'altra. Le storie sono inserite e giustificate in un contesto vivo, con personaggi che vivono la loro vita e raccontano storie, anche se alla fine sono solo i personaggi di una storia raccontata da qualcun altro.

“Il parallelismo formale che qui appare struttura l'intero testo segnato da un'incessante oscillazione tra prosa e versi, tra frasi e racconti. La grande differenza che osserviamo tra i testi orientali dei grandi blocchi culturali indiano, persiano e arabo-islamico (che comprende le versioni ebraiche) e quelli della tradizione europea, sta nel fatto che nel primo caso l'impianto assiologico e il piacere del racconto si traducono in un'impostazione quasi musicale o sequenza visiva tra le diverse sequenze narrative: è proprio in queste sequenze che riconosceremo in modo intuitivo e immediato i temi. Questo modo orientale di collegare gli opposti  - valore e piacere, serietà e leggerezza, moralità e astuzia - intrecciandoli reciprocamente dà poi origine a un continuum testuale per il quale l’analogia migliore, per il caso indiano, è la struttura del componimento del raga e, nel caso di Kalila wa dimna, quella della struttura dell'arabesco. Questa unità complessiva tra continuum testuale e sequenze tematiche si traduce quindi in una struttura propriamente modale, quella di un passaggio incessante tra verso e prosa, tra massime e racconti, tra discorso e testo, tra finzione e non-finzione.”12

Ma qualunque cosa questa costruzione possa suggerire all’immaginazione, è innanzitutto una costruzione letteraria. In questo senso, la cosa importante non è tanto l'isolamento di ciascun racconto quanto la loro combinazione.

La complessa storia delle trasformazioni e delle traduzioni dei testi è stata ampiamente studiata, inizialmente nel contesto della letteratura comparata, delle favole e del folklore che era di moda tra gli studiosi tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo.

Gli studiosi si sono concentrati principalmente sugli aspetti letterari e filologici delle favole del Panchatantra, tracciando le loro diffusioni testuali e traduzioni. Sebbene i risultati ottenuti in questi campi siano stati straordinari, gli aspetti dell’arte plastica della tradizione Panchatantra, che hanno una storia parallela originaria dell'antica India, sono stati trascurati fino agli anni '90.

Un importante passo avanti in questa direzione fu compiuto da Channabasappa Soodayya Patil (1951-2001), della Direzione dell'Archeologia e dei Musei del Governo del Karnataka (India sudoccidentale) il quale, per primo, intraprese uno studio delle sculture che illustrano episodi del Panchatantra in ventotto templi del Karnataka  databili tra il VII e il XII secolo, contenenti più di centoventi sculture Panchatantra.

Lo scopo di Patil era quello di stabilire la relazione di queste sculture indiane e quelle indonesiane con le versioni testuali. Sembra che ci siano stati pochi sforzi, tuttavia, per stabilire la connessione tra questi precedenti e la ricca tradizione visiva delle illustrazioni, diffusa per secoli sotto i titoli di Kalila wa Dimna. E’ piuttosto sorprendente scoprire che alcuni studiosi che hanno studiato le miniature musulmane erano del tutto inconsapevoli dell’esistenza di raffigurazioni scultoree indiane e giavanesi dei racconti del Panchatantra che hanno, forse, preceduto quelle nei manoscritti. 

La compartimentazione degli studi relativi al Panchatantra, separando i capitoli di una tradizione continua e fluttuante, secondo criteri culturali, storici o religiosi sovrapposti, ha limitato e distorto la nostra visione. Le raffigurazioni dei racconti di animali Panchatantra nell'arte monumentale indiana sono forse antecedenti ai primi testi scritti esistenti.

Ovviamente la situazione era diversa quando queste immagini avevano lo scopo di illuminare e decorare il testo in un manoscritto. Grazie alla ricca varietà di illustrazioni persiane e arabe di Kalila wa Dimna, i collegamenti tra il testo e le miniature sono stati studiati alla luce dei contesti culturali e politici, così come formulati nella loro migrazione verso ovest, attraverso il mondo islamico, verso l'area mediterranea. 

Dall’India e le sue sculture rappresentanti storie del Panchatantra al battistero di Parma e il suo Zooforo di Benedetto Antelami, il passo non è propriamente breve, ma anche qui troviamo un’illustrazione del Panchatantra arrivata tramite la traduzione araba del testo:

“Ebbene, a questo stile solido e concreto [del Battistero di Parma] Benedetto Antelami seppe adattare anche elementi che provenivano da lontano: da culture né europee né cristiane – quasi a volerci testimoniare un intervento dell’Oriente a sostegno della spiritualità occidentale e delle sue modalità espressive (...).

Sul timpano della porta meridionale del Battistero di Parma troviamo un bassorilievo che contiene una rappresentazione allegorica della vita umana. La lunetta è notissima, poiché si trova riprodotta in molti libri d’arte. Al centro, tra i rami di un albero variamente identificabile, c’è un ragazzo coi piedi appoggiati sul tronco: con la mano sinistra estrae del miele da un alveare e con la destra se lo porta alla bocca. Intanto, però, due bestie non facilmente definibili corrodono le radici della pianta, mentre un drago eruttante fuoco attende minaccioso, giù in basso, che il ragazzo cada. Ai lati dell’albero, a sinistra e a destra, abbiamo quattro tondi. Nel tondo inferiore sulla sinistra è raffigurato il carro del Sole, trainato da due cavalli: Apollo, col capo raggiante, tiene con la sinistra una sferza e una sfera, e tende la mano destra verso la notte, quasi a volerne fugare le ultime tenebre. Sempre a sinistra, nel tondo superiore, c’è una figura maschile che rappresenta il Giorno. Sul lato destro, nel tondo inferiore, abbiamo il carro della Luna, trainato da due tori: Diana, col capo sormontato dal disco lunare, li stimola con un pungolo che tiene nella mano destra. Intorno a questo medaglione, troviamo disposti due fanciulli nudi che suonano delle trombe e due fanciulli vestiti che con delle specie di bastoni cercano di frenare la veloce corsa del cocchio. Nel tondo superiore di destra, si vede la Notte, con una fiaccola nella destra; dietro di lei, si scorge la testa di un toro. Tutt’intorno al semicerchio della lunetta, si attorce una decorazione vegetale, che richiama le foglie e i frutti dell’albero centrale.

Si tratta di una rappresentazione allegorica, il cui tessuto simbolico doveva ricordare all’homo religiosus che la vita sulla terra viene incessantemente consumata dall’implacabile incalzare del tempo, mentre le fauci dell’inferno attendono chi ha anteposto la dolcezza dei godimenti effimeri al Sommo Bene garante di vita eterna.

Questa allegoria non è un’invenzione dell’artista. Se prescindiamo dagli elementi formali desunti dalla tradizione greco-romana (cioè i due medaglioni con Apollo e Diana), ritroviamo nella scena antelamica l’episodio contenuto in una parabola assai nota all’Europa occidentale coeva, grazie alle versioni latine del Barlaam e Ioasaf bizantino e alle successive rielaborazioni italiane e francesi.

La parabola viene raccontata da Barlaam, il maestro spirituale, al principe indiano Ioasaf. Un uomo, racconta Barlaam, alla vista di un unicorno imbizzarrito fuggì via a gambe levate, ma andò a finire in un burrone. Aggrappatosi ad un arbusto, “pensò che da quel momento in poi poteva starsene tranquillo. Ma quand’ebbe guardato bene, vide due sorci, uno bianco e uno nero, che senza posa rosicchiavan la radice dell’arbusto al quale era sospeso: ed anzi, eran proprio sul punto di reciderla di netto. Allora guardò in fondo al burrone, e scorse un drago orribile alla vista, che spirava fuoco dalle narici: aveva un aspetto torvo e minaccioso, spalancava ferocemente le fauci e non vedeva l’ora di inghiottirselo. E ancora aguzzò lo sguardo a esaminar la base d’appoggio su cui teneva puntellati i piedi: scorse quattro teste d’aspidi che si protendean fuori dalla parete rocciosa, cui si teneva stretto. Allora levò gli occhi in alto, e vide che dai ramoscelli dell’arbusto stillava qualche goccia di miele. Così cessò di ragionar dei flagelli che lo circondavano (…). Di tutto questo, e di sì orrendi spettacoli, sconsideratamente si dimenticò, e con tutto il suo sentire si concentrò sulla dolcezza di quella piccola goccia di miele”.

Il principe indiano Ioasaf, al quale Barlaam racconta la parabola, non è altri che Siddharta, il futuro Buddha. Lo stesso nome Ioasaf (o Iosafat) è la corruzione greca dell’arabo Yûdâsaf (o Bûdâsaf), che a sua volta costituisce un adattamento del sanscrito bodhisattva.

Infatti la storia rappresentata sul Battistero di Parma arrivò in Europa dall’India tramite la mediazione musulmana, tant’è vero che a monte della redazione bizantina, così come di quella georgiana, siriaca, ebraica, troviamo due testi arabi: il Libro di Bilawhar e Bûdâsaf  e il Calila e Dimna. Questi due testi rappresentano una sorta di svincolo centrale nella diffusione della nostra parabola: essi non solo sono all’origine della sua trasmissione nell’area europea, ma la hanno anche consegnata, mediante una versione etiopica, alle comunità cristiane dell’Africa. Il Calila e Dimna, in particolare, è la traduzione di una versione pehlevica del Pañcatantra.”(Claudio Mutti, Orientalia in Padania, https://www.centrostudilaruna.it/orientaliapadania.html)

Le fiabe sono l’alfabeto dell’umanità, a detta di qualcuno. V. Propp diceva: “Ogni popolo ha le sue fiabe nazionali e i suoi intrecci. Ma vi sono anche intrecci di un altro tipo, quelli internazionali, noti in tutto il mondo o almeno a un gruppo di popoli. In una certa misura la fiaba è il simbolo dell’unità tra i popoli. I popoli si capiscono a vicenda attraverso le fiabe.”14

Per dirla con il Rig Veda Samhita:

Ti interrogo sul limite estremo della terra; dov'è, domando, il centro del Mondo?

Ti interrogo sul seme prolifico dello stallone [la vita]; ti interrogo sul cielo più alto dove dimora la Parola.

L'altare è il limite estremo della terra; questo Sacrificio è l'ombelico dell'Universo;

il Soma è il seme prolifico dello stallone; la preghiera è lo stato più puro del Creatore ove dimora la Parola.

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