L'arte corre sui muri al Cisim, Claudio Spadoni*
La favola indiana di Dimna e Kalila, diffusa dal VI secolo prima nel mondo arabo poi anche in Europa, e che ha goduto per lungo tempo di una notevole fortuna, ha come protagonista il mondo animale e rappresenta un'evidente metafora di figure e luoghi del nostro inconscio.
Una favola che come i miti classici greco-latini continua a far rivivere una realtà antropologica e sociale senza distinzioni di tempo e di geografia. Si comprende bene, dunque, come Carl Gustav Jung fosse rimasto così profondamente scosso dal soggiorno in India da scrivere al ritorno: “L'India mi colpì come un sogno poiché ero e rimasi alla ricerca di me stesso e della mia verità personale.” Dalla realtà e dalla cultura indiana Jung trasse ispirazione per “l'elaborazione di costrutti psicologici centrali, quali energia psichica, inconscio collettivo e il suo archetipo principale, il Sé”, come ha scritto Giovanni Sorge. E naturalmente anche le favole indiane offrivano una fonte di ispirazione preziosa proprio per la loro struttura elementare.
La scena in cui svolge la favola del Panchatantra, realizzata al Cisim per un progetto comunitario con una moltitudine di partecipanti e che si potrebbe definire di sintesi delle arti - parola, musica, pittura, danza, costumi, azione scenica - pullula di figure animali protagoniste della narrazione, ma che si ritrovano anche in una sorta di scenografia architettonica, costituita da una sequenza di dipinti murali. Come scene e fondali di un particolarissimo teatro che coinvolge in una partecipazione ideale anche gli spettatori.
Alcuni muralisti hanno dipinto diverse tipologie di animali come quinte o fondali: branchi di lupi e forse anche di sciacalli -una figura che si ritrova nella favola rappresentata- in agguato al passaggio di cerbiatti; un gigantesco rapace -un'aquila?- sospeso in alto in attesa di una preda, e più giù una grande tartaruga; quindi una maestosa tigre e un toro, un altro protagonista della favola in questione, poi uno strano, si direbbe mansueto leone. Dal lato opposto della struttura architettonica un' impertinente caricatura di Dante, un albero d'intonazione surrealista con gufi alle radici e rami che fumano sigarette, e dopo una grande mano stilizzata, un piccolo capolavoro di ambiguità e di mimesi realizzato da Eron, il più talentuoso muralista italiano.Su un'alta parete, da un bocchettone (vero) scende una traccia di caligine finta, ma sembra vera, che avvolge un candido cigno dipinto da Eron con le zampe nell'acqua, dove affiora, come fosse riflessa, la sua immagine tremolante. Un formidabile 'trompe l'oeil' che rimanda all'antico apologo di Zeusi e Parrasio: l'uva dipinta dal primo con tale verosimiglianza da attirare gli uccelli a beccarla, e un velo così ben dipinto da Parrasio da ingannare l'amico che vorrebbe sollevarlo per vedere l'immagine che crede coperta. Che qui può far pensare al connubio, appunto, fra favole orientali e narrazioni mitiche dell'Occidente.
* Allievo di Francesco Arcangeli, Claudio Spadoni è storico dell'arte e curatore. È stato docente di Storia dell'Arte e direttore dell'Accademia di Belle Arti di Ravenna, e critico prima de "Il Resto del Carlino" poi di "QN". Ha fatto parte dei comitati scientifici di diverse istituzioni, tra cui la Biennale di Venezia, la Quadriennale di Roma e Arte Fiera di Bologna. Dal 2002 al 2014 ha diretto il MAR - Museo d'arte della Città di Ravenna, per il quale ha realizzato mostre sulla storia dell'arte moderna e contemporanea.
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