Bhagavadgītā incontra il CISIM, Marco Molari

 Elaborare il conflitto attraverso la comunità

di Marco Molari



Introduzione all'opera

Illuminazione, ricerca, verità, guerra, contraddizione, azione. Questo è "Bhagavad gita", traducibile come "Canto del Beato", opera in sanscrito sotto forma di poema inizialmente tramandato per via orale e trasformato in forma scritta tra il IV secolo a.C. e il IV secolo d.C. Contenuto nel più ampio poema epico "Mahabharata", si propone come pietra miliare dell'insegnamento religioso induista suddiviso in 18 canti denominati "Canti del Divino".

In un totale di 18 canti, viene narrato il dialogo avvenuto tra la divinità Sri Krishna e il suo grande amico Arjuna, i quali si incontrano sul campo di battaglia durante la guerra fratricida tra i Pandava ed i Kaurava figli di Dhrtarastra. I primi, puri devoti di alto livello morale, i secondi privi di virtù antagonisti dell'autorità divina. Le due fazioni si componevano dai figli di due fratelli discendenti del re Bharata (da cui viene il nome dell'intero poema "Mahabharata") e dopo la morte dei loro genitori i figli di Dhṛtarāṣṭra, per ascendere al trono, iniziarono uno scontro armato con i cugini Pandava. Sri Krishna decise così di scendere sulla terra per offrire il proprio aiuto e partecipare allo scontro indirettamente, proponendo una condizione ad entrambe le parti. Senza combattere in prima persona, Sri Krishna offrì così una duplice scelta: mandare il suo esercito personale in uno dei due campi di battaglia e nell'altro Lui stesso come consigliere del comandante. I capi delle due fazioni attuarono le loro decisioni: il comandante dei Dhṛtarāṣṭra, scelse le forze armate di Sri Krishna, mentre il comandante dei Pandava preferì avere la divinità in persona dalla loro parte. Krishna divenne così il conduttore del carro del comandante dei Pandava, Arjuna. Gli eserciti si schierarono in combattimento e Krishna affiancò Arjuna, enunciando il suo insegnamento divino prima dello scontro: la Bhagavad Gita. L'insegnamento si fonda sostanzialmente sul come vivere per connettersi al Divino e come crescere spiritualmente, assolvendo ai propri doveri attraverso l'azione in prima persona. Arjuna esprime il desiderio di non voler combattere contro i propri cugini in battaglia, e ciò sancisce l'inizio del dialogo con il divino Sri Krishna:


"Se ti sottrai alla battaglia venendo meno al tuo dovere religioso, sarai senz'altro colpevole di aver trascurato i tuoi obblighi e perderai la reputazione di guerriero." (Bhagavadgītā, verso 33)


Chi è il nemico?

Al di là del primo significato, ovvero quello di dover adempiere ai propri doveri imposti dai ruoli e dalla posizione sociale ricoperta, l'insegnamento veicola il tema del "vivere il proprio dovere" nel corso della propria esistenza, non dettato principalmente dal sistema di regole che circonda la persona ma suggerito da un principio superiore, un'azione al servizio del Creatore secondo una giustizia ed imparzialità universale, ricorrendo all'attività liberatoria e beatificante della pratica Yoga. Attraverso la riflessione, il controllo e la contemplazione del proprio dovere, lo yoga diviene il mezzo attraverso cui si può raggiungere la vera consapevolezza del "qui ed ora", arrivando ad uno stato di equilibrio che dal singolo si emana direttamente nel mondo circostante, condizione sine qua non per poter migliorare efficacemente la qualità della vita della singola persona e, di conseguenza, dell'umanità intera.

È proprio dal lavoro e dalla ricerca del singolo, attraverso la propria volontà di contatto con il divino, che scaturisce la calma e la lucidità, la saggezza e l'equilibrio, l'ordine e la completezza. La pratica dello yoga non consiste solamente nel meditare su sperduti eremi sulle cause trascendenti del mondo, ma in quanto "pratica" si propone come una vero e proprio atto, un agire che inizia all'interno del corpo e della mente, una ricerca guidata da un solo, assoluto, omogeneo concetto: il ritorno all'unità, il Brahman. Il giungere al principio originario della "realtà assoluta" in cui si risolve ogni inizio e ogni fine permette di superare il proprio individualismo, di distruggere l'illusione di un'esistenza unica ed impermeabile, di accettare la singolarità (perché no, anche nella definizione matematica del termine) come un qualcosa da agglomerare a tutte le altre miriadi di singolarità, di smantellare il teatro della solitudine e dell'isolamento per tornare a quell'amalgama sacro che è il cosmo di cui tutti volenti o nolenti, facciamo parte in maniera indissolubile.

In tutto ciò, il conflitto assume naturalmente il significato simbolico della lotta, della disgiunzione, dello sforzo necessario per poter arrivare alla tanto desiderata calma infinita attraverso una confrontazione diretta con il problema. Gli schieramenti, però, risultano nebulosi ed ambigui: chi è che combatte? È il singolo che combatte un altro singolo? È una nazione contro un'altra nazione? È il mio cuore contro il mio cervello? È un mio pensiero contro un altro mio pensiero? Ed ecco che, nel momento in cui siamo assolutamente sicuri di chi sia l'avversario da combattere con le unghie e con i denti fino alla sua distruzione completa e totale, le carte in tavola si rimescolano e ci mettono di fronte alla grande perplessità: chi è davvero il nemico? Seguendo le orme dell'opera, allestimento allegorico che mostra una guerra "esterna" (i due schieramenti rivali Dhṛtarāṣṭra e Pandava) per poter parlare di una "guerra interiore" (l'indecisione e i dubbi di Arjuna ad agire), la risposta a quesiti ci avvicina sempre di più ad una scomoda e difficile verità da accettare: se il cambiamento parte dal singolo, ma il singolo non è in grado di raggiungere la calma da condividere con i propri vicini, allora il primo nemico che incontriamo sul nostro cammino ha proprio il nostro stesso volto e le nostre stesse fattezze. Sarebbe decisamente molto più semplice se esistesse un modello, un fantoccio, un feticcio, un prototipo, un antagonista malvagio ed assoluto in cui risiedono tutte le caratteristiche negative che vogliamo scacciare dalla nostra vista ed eliminare per sempre, ma questo è naturalmente impossibile. Individuare in una ed una sola cosa l'origine di tutti i problemi risulta in una scelta di narrazione assoluta, autoritaria e mal ragionata, un'azione di demonizzazione semplicistica che viene esasperata proprio nel contesto socio-politico e militare a cui assistiamo, a malincuore, nei conflitti europei Russia-Ucraina e Palestina-Israele. Una fazione afferma con veemenza che la fazione opposta incarna il male assoluto, e la sua distruzione definitiva possa portare ad un miglioramento della vita di tutti quanti. In riferimento all'opera, l'errore di un ragionamento dettato dalle forze economiche e dai rapporti di potere è quello di presumere che non ci sia bisogno di un confronto (interno con la propria coscienza ed esterno con i propri simili), ma basti eliminare fisicamente ciò che è considerato un ostacolo per poterlo superare. Si abbandona così la riflessione, il ragionamento, la maturazione, si cerca di trovare la soluzione più rapida ed efficiente saltando i passi di un percorso obbligato, fatto di sentieri ispidi e di pericoli, in cui ci si può facilmente ferire o rimanere delusi. La paura di affrontare il conflitto ed il diverso con mente aperta, esponendosi ai rischi del giudizio e del danno emotivo, porta la mente e il cuore a chiudersi in un riccio impenetrabile, una scatola chiodata, una gabbia mentale che, piuttosto che adattarsi al cambiamento ed ammettere i propri errori, è disposta a trascinare nell'errore tutto ciò che la circonda.

Ubiquità digitale: "soli insieme" nell'era moderna

Per quanto scontato, cercare di ragionare in termini di crescita personale di ricerca escatologica relegata al proprio sé, nel mondo odierno, non è sufficiente. La globalizzazione e l'introduzione di potenti e pervasivi mezzi di comunicazione ci hanno dato, almeno inizialmente, la possibilità di accorciare o addirittura annullare le distanze fisiche, connettendo persone agli antipodi del globo e avvicinando i diversi gruppi umani in una visione digitale di "comunità diffusa". Quello che poteva essere inteso ottimisticamente come l'inizio di un enorme villaggio globale (si veda il pensiero del filosofo canadese McLuhan, 1964) in cui le persone potevano scambiare informazioni, idee e progetti per il bene della ritrovata collettività umana dopo secoli di divisive ostilità e dispendiosi spostamenti in previsione di una tolleranza e coordinazione volontaria tra le varie società, è diventato l'ennesimo ostacolo per il raggiungimento di una coscienza condivisa. Il risultato è l'allestimento di un distopico e soffocante panoptismo teatrale: emerge una temibile e prometeica combinazione tra le strutture osservanti di potere ("Surveiller et punir", Foucault, 1975) e l'idea di perenne performatività e teatralità sociale ("L'ordine dell'interazione", Goffman, 1967). In una delle sue ultime Lectio Magistralis, Umberto Eco affermava che con Facebook i campi di concentramento non sarebbero potuti esistere dato che tutti lo avrebbero visto e saputo immediatamente, impedendo la disumana impresa dei tedeschi (sitografia 1). Tristemente, assistiamo ogni giorno alla disconferma di questa frase tramite la testimonianza degli orrori che passano attraverso i telegiornali e i feed di qualsiasi social che abbiamo a disposizione. Come è possibile, quindi, che venga permesso il sopruso nell'atto disumano della guerra, l'umiliazione degli ultimi, l'esercizio di un potere ingiusto quando i "processi del male" sono perfettamente accessibili e letteralmente sotto gli occhi di tutti? Cercando di dare una risposta, si potrebbe pensare che per quanto il flusso di contenuti scorra imperterrito tra le nostre dita, tangibile e sotto il nostro costante ed attento controllo, la "lontananza mediata" dai contesti di difficoltà pare rendere vicina l'informazione (e la sua condivisione) ma lontano il sentimento e l'empatia. Al sicuro dietro la lastra di vetro e silicio del nostro cellulare, appoggiamo il naso sulla vetrina del mondo senza mai entrarvici dentro appieno, costantemente aggiornati sull'ultima novità a debita distanza emotiva e corporea. La riflessione cosciente si trasforma in performanza continua sotto gli occhi giudicanti del resto del mondo e delle proprie "filter bubbles" (Parisier, 2011), e la condivisione di idee diventa appiglio di contatto sociale monetizzabile in base a quante interazioni il contenuto possa avere, le discussioni diventano sterili confronti da bar virtuale alla ricerca di approvazione o solo per suscitare sdegno. In accordo con Andy Warhol, la possibilità di essere virali nei propri 15 minuti di celebrità, ora divenuti 5 secondi, è sempre dietro l'angolo: ogni vera volontà di confronto e crescita pare essersi gassificata per appagare miriadi di sconosciuto e conosciuti ed accrescere il proprio ego in autonomia.

L'interpretazione del CISIM: resistenza culturale nell'esperienza comunitaria

Dove finisce la "presenza mediata", concatenazione in bilico tra un "esserci" e un "non-esserci", entra in gioco il contatto, la presenza, l'essere a portata di mano, l'esistere. La traduzione in spettacolo dell'opera epica divina, in un mutamento costante tipico dell'arte performativa nel suo farsi, si trasforma in un momento collettivo di riflessione ed azione contro l'immobilismo del presente attraverso i numerosi punti di vista allestiti da questo partecipato lavoro di comunità. L'operazione di allestimento visivo operata nelle scenografie di Nicola Montalbini, l'adattamento del testo strutturata dal drammaturgo Tahar Lamri, per la regia di Luigi Dadina e la direzione artistica di Lanfranco "Moder" Vicari, le musiche di Francesco Giampaoli e Jessica Doccioli, l'organizzazione generale di Federica Francesca Vicari: generazioni differenti di bambini, adolescenti, adulti ed anziani provenienti da ogni angolo del globo si congiungono in un unico nodo funzionale, una variopinta ed eterogenea macchina sociale multiculturale che sintetizza e si sovrappone perfettamente all'operazione di ragionamento ascetico, tendente alla divina illuminazione attraverso un ragionamento performativo che avviene, in questo caso, in una modalità connessa e condivisa. C'è chi si prepara da seduto per raccogliere le forze, c'è chi corre all'impazzata per scaricare la tensione, c'è chi chiacchiera e da una mano ad organizzare i materiali, c'è chi ripete fino all'esaurimento la propria parte per assicurarsi di non sbagliare, c'è chi suona il proprio strumento, c'è chi sgranocchia qualche patatina in allegra compagnia. Esattamente come nello Yoga, ognuno sceglie la propria prassi riflessiva e si fa vivo strumento umano di una rappresentazione sfaccettata e complessa, sia dal punto di vista della traduzione letteraria che nella resa visiva della narrazione. Un atto di teatro che trasforma la performance attoriale in una "ritualità agita collettivamente", una meditazione in movimento a stretto contatto con lo spettatore che sancisce e riconosce il singolo all'interno della comunità materiale ed immateriale di cui esso fa parte, rendendo ogni singolo personaggio, interpretazione, battuta una cellula viva di resistenza culturale, una pacifica condanna verso gli orrori e le grandi ingiustizie del nostro tempo. La situazione palestinese viene fatta emergere senza timore e con fierezza dai costumi di scena attraverso pettorine antiproiettile marchiate in vernice bianca con la formula d'ordine "Free Gaza", volutamente di stile militare per indicare la sovrapposizione tra il conflitto moderno e il conflitto antico della Bhagavadgītā, affermando il ripudio di ogni tipo di conflitto indipendentemente dal luogo e dal tempo storico. Percorrendo l'opera nel suo svolgimento, il testo comincia ad adattarsi alle singole persone che lo interpretano, rendendo una storia mitica una vera e propria storia personale, chiamando in causa attori ucraini, indiani, ravennati, tunisini, marocchini: l'interpretazione diventa così la storia di tutti, una migrazione umana che racconta tanto degli altri quanto di noi stessi attraverso gli occhi di chi, in prima o in seconda persona, ha assistito degli orrori messi in moto delle macchine belliche russe, statunitensi ed israeliane che, ai vari angoli del mondo, trascinano a favor proprio la società civile nel fango dell'idealismo.

La parola d'ordine è resistenza, e la chiamata ad affrontare intolleranza ed autoritarismi è oggi più forte che mai: il CISIM, nel suo ruolo di conglomerato di esperienze ed aggregatore di culture umane, risponde nel miglior modo possibile.


BIBLIOGRAFIA

  1. Bhagavadgītā, (1991). A cura di Anne Marie Esnoul, traduzione di Bianca Candian, Gli Adelphi, Edizione 6, Adelphi, Milano;

  2. McLuhan M., (1964). Understanding media: The extensions of man. McGraw-Hill, New York. Edizione consultata: McLuhan M., (2006). Gli strumenti del comunicare, traduzione di Capriolo E., Quality Paperback, Net, Il Saggiatore, Milano;

  3. Foucault, M., (1975). Surveiller et punir: Naissance de la prison. Gallimard, Parigi. Edizione consultata: Foucault, M. (1976). Sorvegliare e punire: Nascita della prigione, traduzione di A. Fontana & P. Pasquino, Einaudi, Torino;

  4. Goffman, E. (1967). Interaction ritual: Essays on face-to-face behavior. Anchor Books, New York. Edizione consultata: Goffman, E. (1987). L'ordine dell'interazione, traduzione di A. Dal Lago, il Mulino, Bologna;

  5. Pariser, E. (2011). The filter bubble: What the Internet is hiding from you. Penguin Press, Londra. Edizione consultata: Pariser, E. (2012). Il filtro: Quello che Internet ci nasconde, traduzione di G. Pannofino. Il Saggiatore.

SITOGRAFIA

  1. Lectio Magistralis Umberto Eco: https://www.youtube.com/watch?v=u10XGPuO3C4


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