Il teatro che danza sulle onde
Tre anni di viaggio: dal Verbo degli Uccelli al Bhagavadgita
Dove le pupille ridenti parlano e il sacro si fa carne
Diciotto secondi. Il tempo di un respiro, di un battito del cuore che si dilata fino a contenere l'infinito. Diciotto secondi che durano una vita, che racchiudono l'ultima tappa di un viaggio triennale straordinario. Dal Mantiq At-Tayr - Il verbo degli uccelli - al Panchatantra o le mirabolanti avventure di Kalila e Dimna, fino a quest'anno, quando un gruppo di anime coraggiose ha osato l'impossibile: portare in scena il Bhagavadgita, il testo sacro che nessuno in Occidente aveva mai avuto il coraggio di affrontare teatralmente.
È qui, tra la spiaggia e il CISIM di Lido Adriano, che si è compiuto un miracolo triennale. Un teatro che ha scoperto che "il nostro elemento è l'acqua", che ha imparato a danzare con la pioggia benedetta, che si è fatto preghiera laica innalzandosi nel cielo dell'Adriatico attraverso tre anni di crescita, scoperta, trasformazione.
L'anno del Bhagavadgita: I Pandava in scena
Quest'ultimo anno, il più arduo, ha visto nascere i "Pandava" - così si chiamano affettuosamente tra loro gli attori che hanno affrontato la sfida del testo sacro indiano. Meravigliosi Pandava che sono arrivati all'ultima replica sapendo di aver compiuto qualcosa di storico, di aver vissuto diciotto secondi pieni di gioia e di emozione che sembrano durare una vita intera.
Il CISIM in quei giorni era un alveare. Non è metafora, è realtà palpabile nel brulicare continuo, nel movimento perpetuo di corpi che si cercano e si riconoscono, nel ronzio dolce delle voci che si intrecciano. L'alveare ha i suoi abitanti-attori, ognuno con la propria storia, ognuno indispensabile come una cellula del corpo più grande che è la comunità teatrale.
C'è Daniele con la sua borsa termica, che ogni sera porta i panini squisiti - squisiti per definizione, anche se non ancora assaggiati. Attorno a quei panini si forma una piccola comunità nella comunità, un cerchio di condivisione che sa di casa e di famiglia scelta.
C'è Rachele con la sua sigaretta, momento di pausa che è anche momento di incontro tra interpreti. Elena con il suo sguardo riconoscente, Francesco con quello sguardo dolce e gentile che osserva tutto, sa tutto, custodisce tutto nel suo ruolo. Le piccole frasi che volano nell'aria come farfalle tra una prova e l'altra: "Io adoro i gatti!", "Ma tu fai qualcosa che ha a che fare con le acrobazie?", "Sì, come fai a saperlo?".
Incontro Simona: "Tu chi sei?" "Mi chiamano il drammaturgo." "Sono di passaggio a Ravenna. Vengo dal Veneto. Cercavo qualcosa da fare, oltre il mio lavoro di psichiatra, e mi sono imbattuta in questa meravigliosa esperienza. Purtroppo non posso essere con voi l'anno prossimo."
In lontananza due ragazzini parlano e ridono con un gruppo di bengalesi che non parlano una parola d'italiano. In quale lingua? Dio solo lo sa. È il dharma del GTLA: si crea istantaneamente una memoria condivisa, una lingua che travalica tutte le lingue. Un sabir di gesti e di sguardi. È alchimia. È magia. Chiamatela come volete.
Arriva Diana che ha un sorriso trattenuto, forse per pudore, in serbo per ognuno. Arriva Marta sempre grata alla vita. Arrivano Sara e Fiamma, esempio perfetto di rapporto madre-figlia. Appena arrivata, Fiamma corre con i bambini che corrono da tutte le parti e ogni tanto, fra una corsa e l'altra, si fermano di botto e apostrofano i grandi: "Dove pregano i buddisti?"
Cerco con lo sguardo Ivan e Laura ma mi viene in mente subito che ci hanno lasciato, per motivi di lavoro, a metà strada. Da quasi tre anni Ivan, il mitico Avvoltoio de Il Verbo degli Uccelli, corre da Bologna a Lido Adriano per non perdersi nemmeno una prova.
Vedo, più in là, Katarzyna e Thierry ripetere i canti del coro. I ragazzi del Gambia che guardano sul cellulare la partita Inter-Barcellona e ridono dicendo: "Guerrero. Giustiza". Vicino a loro un ragazzo del Ghana, salvato in mare e sbarcato due giorni prima da una nave di una ONG di cui non ricordo il nome, perennemente con il sorriso sulle labbra in mancanza di parole per dire come è contento di essere lì. Salvato due volte.
Le risate sorprendenti di Margherita risuonano tra i dialoghi del copione, le 4.532 parole al minuto di Omar e Hiba - nel frattempo diventata la più giovane assessora d'Italia – che salta, come una farfalla, da un abbraccio all'altro. Chi non ama Hiba? È una domanda retorica, perché Hiba è una di quelle attrici che si amano automaticamente, per istinto, per la generosità che si porta appresso.
Martina con le gambe incrociate sulla panchina quando si può, che fuma la sigaretta che la mette in pace con Grinder e con il GTLA. Momento di pausa tra le prove, momento di riflessione prima di tornare a incarnare il proprio personaggio.
E c'è chi si assicura che la carne sia cotta e che i musulmani possano avere la loro carne halal, perché in questa comunità teatrale nessuno è straniero, nessuno è dimenticato, e le differenze culturali arricchiscono la rappresentazione.
Ma c'è soprattutto lei, Tiziana. Gli altri anni attrice protagonista, quest'anno presenza diversa ma non meno importante. Con la sua gratitudine profonda per tutti i compagni di viaggio e per tutti coloro che contribuiscono alla magia teatrale, custodisce intatti i bambini-Krishna.
Ogni interprete porta la sua magia unica. Ci sono attori che portano serenità e saggezza antica, altri con sguardi profondi e acuti, l'incredibile capacità di districare nodi emotivi e rendere credibili anche le interpretazioni più complesse.
C'è chi sa rendere tutte le emozioni, i colori, i paesaggi in parole e gesti, coltivando negli altri attori una consapevolezza maggiore e una libertà nell'espressione. E poi c'è Jessica, la voce unica, soave ed emozionante, vibrante di sfumature che trascina e rapisce, che accompagna la preghiera laica e corale innalzandosi nel cielo del Lido Adriano.
Ma c'è un'immagine che sovrasta tutte le altre, un'attrice che incarna l'essenza stessa di questo teatro attraverso gli anni: Asia che balla da sola con gli auricolari. Asia che ha attraversato questi anni di teatro, che ha visto crescere la comunità, che ha uno sguardo protettivo per tutte e tutti. Arrivano alla rinfusa Sara, Martina, Rita, Patrizia, Hiba, Marta, Cinzia, Carolina, Anna, Francesca, Rachele, Elena, Elisabetta e tutte le altre sue sorelle di scena. Qualcuna balla con lei, qualcun'altra si preoccupa per il fiume in piena delle emozioni, ma Asia è lì, presente, protettiva, con gli auricolari pronti per un altro momento di concentrazione. Da sola, sempre da sola, ma mai sola davvero.
Quest'anno, affrontare il Bhagavadgita non è stata impresa da poco per gli attori. È un testo sacro della lontana India, un oceano di saggezza che nessuno in Occidente aveva mai osato portare in scena. La responsabilità interpretativa è immensa, storica. Lo diranno i libri di storia del teatro: è la prima volta, è una prima assoluta.
Eppure questi meravigliosi Pandava si sono lanciati nell'impresa teatrale con una grazia che ha il sapore del miracolo. Hanno affrontato un testo dannatamente difficile e lo hanno fatto con quella naturalezza scenica che appartiene solo a chi ama veramente quello che interpreta. Si sentono volare le mosche durante lo spettacolo. Un raccoglimento inedito. Una comunione tra attori e pubblico.
Prima di salire in scena, c'è un momento sacro condiviso. Il momento del rito. Prima di ascoltare le parole di Sofia per l'Ucraina, di Hiba e Omar per i morti nel Mediterraneo, di Gabriele-Gandhi che interpreta la pace come "una parola grossa". Prima di sentire il pianto e le risate di Asia - nome emblematico di questo teatro che guarda a Oriente.
Poi si innalza la preghiera laica e corale nel cielo del Lido Adriano, con la voce di Jessica che guida questo momento di raccoglimento che unisce tutti.
Quel giorno era l'Eid, la festa che i musulmani celebrano in ricordo del sacrificio di Abramo. Eid Mubarak a tutti, musulmani o no. Perché in quella compagnia non esistono divisioni, esistono solo anime che si riconoscono nel viaggio comune verso la bellezza e la verità scenica.
Era anche il giorno del ritorno alle rappresentazioni, dopo una piccola pausa, dopo il trionfo delle prime repliche. Gli attori tornavano più carichi e più scintillanti di prima. Tornavano con la Palestina sulle magliette e nei cuori. Nessuna compagnia teatrale aveva mai ricordato il Bangladesh come veniva ricordato lì, nel breve tratto che separa la spiaggia dal CISIM: "জয় বাংলা।" "Joy Bangla!"
I narratori-attori, all'apparenza minacciosi ma dai cuori teneri, sono lì in spiaggia ad accogliere le persone prima dello spettacolo. Sono loro che dirigono la fiumana che racconta antiche storie del Gange, portando il pubblico verso l'esperienza teatrale.
E risuona la poesia di Lanfi, che sa catturare l'essenza di questo lavoro interpretativo: "Ogni volta si parte da zero, nel nulla che chiami mistero... spremere olio di gomito, grida la voce di Dioniso, su strade che non si incrociano".
Solo poche settimane fa tutto questo sembrava impossibile per gli attori. Oggi è un miracolo quotidiano. Un miracolo fatto di corpi sinceri e sguardi impollinanti. Sguardi di interpreti che impollinano anime, che portano bellezza e verità da un cuore all'altro, da un pubblico all'altro.
Spettatori rapiti da parole e concetti difficili pronunciati da corpi e occhi sinceri di attori che ci credono davvero. Questo è il potere del teatro vero: cambiare lo sguardo sul mondo attraverso la sincerità dell'interpretazione.
Alla fine, quando si sono messi a posto i costumi, quando l'ultima battuta è stata pronunciata, quando l'ultimo applauso si è spento, rimane l'abbraccio. Un abbraccio come loro, come questa comunità di interpreti unica che ha saputo far fiorire il miracolo in riva al mare.
Perché quando un attore guarda un altro attore, e quando insieme guardano il pubblico nella parte più preziosa che ha, ossia la pupilla, tutti vedono se stessi riflessi. E in questo teatro di pupille ridenti, in questo alveare di anime innamorate dell'arte teatrale, ognuno ha potuto vedere se stesso riflesso negli occhi degli altri, e trovarsi più bello di quanto credesse possibile.
I Kaurava erano in agguato al di là del fiume, ma i Pandava-attori ce l'hanno fatta. Ce l'hanno fatta insieme, e questo era già un fatto prima ancora di iniziare le prove. Perché quando si interpreta con così tanto amore, quando si è così profondamente legati gli uni agli altri come compagni di scena, la vittoria è nell'essere insieme, nel condividere il sogno teatrale, nel danzare insieme al ritmo delle onde dell'Adriatico.
Nel nome del teatro, dell'interpretazione e della bellezza che salva il mondo, diciotto secondi alla volta.
Il secondo anno: Kalila e Dimna sotto la pioggia benedetta
Per comprendere appieno la magia di quest'ultimo anno, bisogna tornare indietro al secondo capitolo di questa saga teatrale, quando la comunità affrontò il Panchatantra o le mirabolanti avventure di Kalila e Dimna. Era l'anno in cui hanno scoperto che "il nostro elemento è l'acqua", l'anno della pioggia benedetta che invece di fermare il teatro lo ha reso ancora più vivo, ancora più ardente.
"Cari amici della foresta, tribù dalle pupille ardenti": così Lanfi si rivolgeva a quella comunità che stava imparando a danzare con gli elementi. Era l'anno in cui Hiba, nel presentare sua madre, suo fratello e sua zia dopo lo spettacolo cancellato per pioggia, si sentì dire dalla zia: "Amtar el kheir" - benedetta pioggia, bella pioggia, pioggia di felicità. Hiba, italiana, guardò male la zia, ma quelle parole contenevano una saggezza antica: nel sud del mondo si fa festa quando piove, in certi paesini dell'Algeria quando piove escono tutti gli abitanti sotto la pioggia con strumenti musicali e cibo per festeggiare.
Dovevate vedere Moussa e Max con il mare alle ginocchia e la pioggia sopra le teste, imperterriti nel loro ruolo. Dovevate vedere Camilla, Marco e Marco, con la parte più asciutta del corpo soltanto la lingua, che continuavano imperterriti con il Panchatantra in mano. La pioggia non era più nemica ma alleata, non ostacolo ma benedizione.
E gli dei, che prima si erano ingelositi della perfezione della generale del 29 e della prova del 28 - "Ripeto: perfette. Tutti perfetti" - avevano mandato la pioggia benedetta senza calcolare che questa avrebbe reso ancora più vivo lo spettacolo e le pupille ancora più ardenti.
C'erano Marina e Alexandra che si infiammavano a ogni piccola parola del copione. C'erano Giada e Chiara sotto l'albero a destra, con il cellulare in mano a ripetere le battute anche sotto la pioggia. C'era la dolcezza di Cinzia e Emma che controllavano i bambini, ricevendo un compito duro ma affrontandolo con quella grazia che appartiene solo a chi sa prendersi cura.
E poi c'era il rito, quello che si ripeteva ogni sera prima dello spettacolo. Lanfi che guardava gli occhi concentrati dei Leoni mentre si preparavano, che chiedeva a Matteo se i microfoni erano accesi. La dolcezza di Cinzia e Emma, la birra bevuta a metà con Emanuele, la domanda rituale se Max e Moussa erano partiti.
"Silenzio tutti in posizione", e poi il pugno tra Lanfi e Gigio, Checco che intonava il tamburo, Walter che faceva un sorriso, il coro che si posizionava e gli occhi che diventavano seri. Lanfi in piedi al cancello in ansia ad aspettare la folla che stava arrivando.
Uno sguardo a Elena, Omar, Cristian, Tiziana, Suna, Hiba, Patti, Marina, Jack, Chiara. Enrico a occhi chiusi che stava già facendo l'albero. "Ecco, resto lì un altro po', c'è tempo per svegliarsi, sto qui dove tutto sembra al posto giusto. Si parte. Ci vediamo di là."
"Sono in quella fase in cui esci da un sogno e non sai bene se è successo veramente", confessava Lanfi alla fine del secondo anno. "Per settimane il grande teatro è stata l'unica cosa a cui ho pensato e per cui tutti abbiamo sudato insieme. La pioggia ci ha benedetti e sfiniti insieme, ma tutto si è incastrato come in una leggenda antica."
Era l'anno in cui hanno capito che stavano vivendo qualcosa di più grande di loro stessi, qualcosa che aveva il sapore delle leggende antiche ma la concretezza del sudore condiviso, della fatica affrontata insieme, dell'amore che rende possibile l'impossibile.
Il primo anno: Il Verbo degli Uccelli e la nascita della tribù
Ma tutto è iniziato prima, molto prima, nell'autunno del 2022, quando un gruppo di anime si è ritrovato per la prima volta attorno al Mantiq At-Tayr - Il verbo degli uccelli. Era appena passata l'alluvione in Romagna, e quella che sarebbe diventata una tribù si stava ancora scoprendo in un luogo unico al mondo: Lido Adriano, l'unica banlieue sul mare con oltre 60 nazionalità, dove "per vivere a Lido Adriano bisogna farsi stranieri tra gli stranieri".
"È con la poesia e attraverso la poesia, con la musica e attraverso la musica che l'anima intravede gli splendori che stanno oltre la tomba", e quegli amici uccelli stavano imparando a respirare con l'anima. I loro bambini, armati di specchi, facevano loro da scudo, abbagliando gli sguardi degli spettatori e giocando ad abbagliare con i riflessi luminosi che rimandavano un mondo più bello.
Era l'anno del desiderio di Rachele: "Voglio un re che non faccia più rompere le uova". Un desiderio che sembrava interamente esaudito, perché in quella comunità nascente nessuno "scocciava le uova" - non rompeva i gusci fragili dei sogni altrui, non spezzava la delicatezza di anime che si stavano ancora formando come gruppo.
Era l'anno in cui abbiamo vissuto come un lutto la partenza di Sofia che ci ha lasciati perché ha trovato lavoro troppo lontano per poter essere con noi il mercoledì sera alle prove. Ci ha lasciato: "Fiù fiù, voglio un re che mi insegnasse a fischiare!" Un'altra ragazza, di cui non ricordo il nome, ha abbandonato perché doveva venire da Meldola. Ha provato alcune volte poi si è arresa alla distanza.
"Potrei avere un microfono ad archetto? È da sempre il mio sogno!", diceva Noemi, di professione parrucchiera, una volta salita sulle spalle di Nicolò Kurshumi in arte DonKoro, elettricista e bravo rapper a tempo perso, per fare la parte del pavone. "No. Non abbiamo molti soldi per quel tipo di microfono, siamo un teatro comunitario, abbastanza squattrinato", rispondeva il regista con quella sincerità che sarebbe diventata il marchio di fabbrica del gruppo.
E quando l'artista Nicola Montalbini, armato di pennarelli, cominciava a "tatuare" sui volti e sulle braccia degli attori dei segni in caratteri arabi per identificare i vari uccelli, Hamza, un richiedente asilo somalo, si avvicinava bisbigliando "Bismillahi errahman errahim" per scacciare presunti diavoli. "Che magia è questa che state praticando?", chiedeva sospettoso. Arrivava alla riscossa Wajih, richiedente asilo tunisino: "Ma che dici Hamza, questo si chiama teatro, non magia! Mi sa che non sai niente di teatro!".
Era così che si imparava, giorno dopo giorno, cosa significasse fare teatro insieme: superare i malintesi culturali, abbracciare le paure, trasformare la diffidenza in curiosità.
C'era tra di loro chi aveva spalato fango fino allo sfinimento, chi aveva pulito i bagni dell'ITIS o di altri cosiddetti "hub", chi aveva portato qualche cassa d'acqua o qualche rotolo di carta alla compagnia dell'albero. C'era chi aveva raggiunto le fila della Croce Rossa come volontario, chi aveva accompagnato i figli a Faenza o Forlì, chi era andato semplicemente al lavoro con il cuore grosso. Chi aveva fatto il reporter dal "fronte" delle acque, chi era rimasto a casa a pregare o bestemmiare, chi aveva messo la casa a disposizione accogliendo amici o sconosciuti. Tutto in silenzio, senza clamore e senza selfie.
I "gitiellini" del GTLA del CISIM operavano dall'ottobre 2022 per riparare la frattura che sembrava insanabile, provocata dalla pandemia. Come i ragazzi accorsi in Romagna da tutta Italia a dare una mano per dire "Eccoci, connessi e solidali", così anche questo folto gruppo costruiva, di settimana in settimana, dall'autunno all'inverno a quella strana primavera, altri affetti, altri legami.
C'è un momento che definisce lo spirito di questa compagnia, un momento che appartiene al secondo anno ma che illumina tutto il percorso successivo. Durante la riunione decisiva - andare avanti o fermarsi di fronte all'alluvione - fu Rachele a salvare tutto. Rachele, alluvionata anche lei, che disse con la determinazione di chi ha toccato il fondo e ha scelto di risalire: "Se me l'aveste chiesto qualche giorno fa, vi avrei mandato a quel paese. Ma ora facciamo lo spettacolo!"
Quelle parole divennero il mantra della resistenza creativa, la prova che quando si ama davvero quello che si fa, nessun elemento può fermare la bellezza.
L'idea era nata dal ricordo indelebile di uno spettacolo visto in Argentina, nel quartiere della Boca a Buenos Aires, con il teatro comunitario di Catalinas Sur. Musica, canzoni, grandi cori, recitazione, danza. E soprattutto l'orgoglio di raccontare una nazione, una città, un quartiere. Era come se lo stormo degli uccelli de La Boca si fosse alzato in volo alla ricerca di un senso e avendo incontrato il teatro avesse trovato il Simorgh.
Perché questo era il cuore del poema sufi che stavano portando in scena: un gruppo di uccelli che, sentendo la necessità di organizzarsi meglio, decide di andare alla ricerca del proprio Re, il Simorgh. Dopo molte peripezie, dopo aver varcato le sette valli, solo trenta tra loro arrivano alla meta e si accorgono che Simorgh è uno specchio in cui si riflette la loro immagine. Il fine del viaggio è la ricerca di se stessi.
Dal dicembre 2022 erano attivi al CISIM sette laboratori, tutti gratuiti: tre di teatro (uno per bambini, uno per adolescenti, uno serale per adulti), un laboratorio di rap, uno di musica, uno di sartoria e uno di scenografia. Era lì che si formava quella "koinè cosmopolita" fatta di bambini, giovani di Lido e di Ravenna, ravennati con origini non italiane, rifugiati arrivati dall'Afghanistan, dal Pakistan, dalla Nigeria, dal Gambia, immigrati dalla Calabria, studenti universitari, pensionati milanesi che avevano scelto di vivere al Lido.
Erano chiamati a una grande, enorme responsabilità che gravava sulle loro spalle strette: sarebbero stati il primo evento culturale di rilievo ad accompagnare il ritiro delle acque e l'asciugatura delle valli. Sarebbero stati loro a dire a chi voleva venire a trovarli che era ora del sole, del sorriso, che la cultura ha sempre salvato gli esseri umani nelle ore più difficili, da quando si chiamano sapiens.
Il GTLA partiva dall'assunto che l'arte è un diritto di tutti i cittadini e voleva ripensare Lido Adriano come uno spazio vitale, uno spazio di partecipazione e non di paura, un luogo dove incontrarsi e non un dormitorio da cui fuggire. Non pensavano allo spettacolo come prodotto finale, ma si nutrivano del processo che conduceva a quel prodotto, vivevano del lavoro di gruppo quotidiano che coinvolgeva una molteplicità di persone legate da rapporti inediti.
Avrebbero messo abiti nuovi, da loro confezionati per significare la rinascita. Avrebbero cercato di raccontare con parole proprie antiche storie con gesti semplici, la schiena dritta e lo sguardo schietto. Sarebbero stati un sorriso per tutti. Sarebbero stati loro. In cerchio. In comunione.
Il CISIM si rivelava già allora come "Centro di Infusioni e Impollinazioni Culturali", un alveare di anime che si riconoscevano attraverso gesti semplici e profondi. C'era l'abbraccio spontaneo e lo sguardo zen di Marta, le spiegazioni di Regina-Sara su come prendere giorni dal lavoro per venire alle repliche e la sua offerta di truccare chi voleva essere truccato.
C'erano Elena e Francesco che aiutavano a correggere il testo come vecchi amici di sempre, Sara che lasciava le chiavi nella macchina a Modena e percorreva nella notte la strada Lido Adriano-Classe in bicicletta. Marina che trovava un pezzo di Francia nel giardino del CISIM, la dolcezza estrema e pura come la neve delle cime dell'Atlante di Hiba.
Ognuno aveva la sua caratteristica, come se fossero davvero gli uccelli protagonisti del testo sufi che stavano portando in scena. Noemi che offriva il suo lavoro a tutti dicendo "I giorni dello spettacolo porto i miei attrezzi per pettinare chiunque lo voglia". Semiha e Suna, le quali dopo averle conosciute ti chiedevi: "Come mai non le ho conosciute prima?"
Omar che rompeva il digiuno del Ramadan in un angolo e chiedeva a chiunque si avvicinasse "Vuoi un dattero?" - dattero di antica ospitalità berbera. La risata di Enrico, che tentava di parlare in arabo con l'unica parola che conosceva e che pronunciava ogni volta in modo diverso e contraddittorio.
Rachele che non voleva sentirti dire "Sei brava" ma conosceva tutti i segreti del kiwi, il frutto non l'uccellino. Il mitico Giacomo che aveva un'idea precisa ma non la diceva nemmeno sotto tortura. Marco, falco distaccato durante le prove e gioviale all'enoteca come se fossero due persone diverse.
Respirare con l'anima e non "scocciare" mai costava fatica, perché ogni sera gli sguardi erano puntati su di loro, salvo il momento magico in cui i bambini con i loro specchi abbagliavano e distraevano il pubblico. Ma quella tribù di uccelli aveva dato ampia prova, sera dopo sera, di reggere la fatica, di superare le valli sotto la guida sapiente dei più grandi.
“Non mi sono scocciato neanche un attimo, durante tutto lo spettacolo” così mi disse Erdogan, non il presidente della Turchia, ma il fratello di Semiha. Mai recensione fu così precisa e così emozionante.
Stavano imparando quello che Amleto insegnava ai suoi attori: "reggere lo specchio alla natura", mostrare alla virtù il suo volto, al disdegno la sua immagine. Non erano quelli che "muggivano" o si muovevano "con portamento che non era né cristiano né pagano e nemmeno umano". Erano anime vere che accordavano "il gesto alle parole, la parola al gesto", sempre attenti a non superare "la modestia della natura".
C'era anche il lato umano, quello dei piccoli disagi e delle necessità che a volte dividevano. Quando i giornalisti arrivavano da tutta Italia e bisognava fare gli onori di casa, sedersi dentro il CISIM mentre "la bellissima tribù" rimaneva fuori in giardino, nasceva un disagio profondo. Non era per voler festeggiare da soli o separarsi, ma per i doveri che la notorietà portava con sé.
"Avrei voluto essere da un'altra parte o a cena con la bellissima tribù", confessava chi si trovava costretto tra critici e giornalisti quando avrebbe preferito gli sguardi muti ed eloquenti dei compagni di viaggio. Perché era con loro che si viveva il vero miracolo: guardare l'altro "nella parte più bella e preziosa, ossia la pupilla e vedere se stessi".
Pietro silenzioso un attimo prima, che esplodeva come il sapore di una zeppola in bocca. Cinzia ed Emma, Napoli trattenuto in Romagna. Gabriele, romagnolo uomo delle valli e delle nebbie gentilmente perso al CISIM, che se non fosse per la timidezza abbraccerebbe tutti in una sola volta.
Wajih sempre allegro malgrado tutto, Lucky il falco di poche parole, Simon di cui non si sapeva nulla. Zargona, l'eleganza che a ogni domanda rispondeva con una domanda. Kingsley il più visibile per altezza, fratino perfetto in cerca del proprio Caradrio.
Heike che si svelava poco a poco, Niakhanakar avida di sapere, l'Avvoltoio perfetto nella parte di cui non si ricordava il nome, Laura di cui rimaneva in mente il sorriso. E Jessica, già allora il pilastro vocale che alternava silenzio e canto.
Per loro, che non erano una compagnia teatrale classica, il debutto era avvenuto tanto tempo prima - tanti debutti, ognuno aveva debuttato il giorno in cui aveva deciso di far parte di quel gruppo meraviglioso. Dal "debutto" verso il pubblico li separavano solo alcuni giorni, giorni in cui sarebbe salita l'adrenalina, sarebbero stati sommersi dalla serotonina e da tutti gli ormoni della felicità e forse dello sconforto.
Ma sarebbero stati lì ogni sera a formare il cerchio e allentare la morsa delle acque. Il cerchio: ecco l'immagine che definiva già tutto, fin dal primo anno. Un cerchio di anime che si tenevano per mano per resistere alla corrente, per trasformare il dolore in bellezza, per dire al mondo che dopo l'alluvione viene sempre il sole.
Era in quel cerchio che nasceva la tribù, era in quel cerchio che il Verbo degli Uccelli iniziava il suo volo verso il Panchatantra e infine verso il Bhagavadgita. Un volo di tre anni che avrebbe attraversato continenti, culture, stagioni dell'anima, sempre mantenendo quella forma perfetta: il cerchio dell'amore condiviso.
Un amore che non muore, come veniva promesso fin da quei primi giorni difficili e meravigliosi, quando tutto sembrava impossibile e tutto invece stava per iniziare.
Tre anni. Tre testi sacri. Tre continenti dell'anima attraversati da una tribù che ha imparato a respirare insieme, a danzare con la pioggia, a trasformare ogni ostacolo in benedizione. Dal Mantiq At-Tayr al Bhagavadgita, passando per le avventure di Kalila e Dimna, questo teatro comunitario ha dimostrato che l'arte è il linguaggio universale che abbatte ogni barriera.
In quel cerchio formato ogni sera sul palcoscenico del CISIM, tra la spiaggia e il cielo dell'Adriatico, si è compiuto un miracolo quotidiano: la trasformazione di anime diverse in una sola voce, di lingue straniere in un unico canto, di paure in coraggio condiviso.
I bambini con i loro specchi continuano ad abbagliare il mondo con riflessi di bellezza. Asia continua a danzare con i suoi auricolari, da sola ma mai veramente sola. Jessica continua a guidare con la sua voce la preghiera laica che si innalza nel cielo del Lido Adriano. E tutti, Pandava e Kaurava, uccelli e leoni, narratori e spettatori, continuano a guardarsi negli occhi e a scoprirsi più belli di quanto credessero possibile.
Perché questo è il vero insegnamento di questi tre anni di teatro: che nella pupilla dell'altro si riflette sempre la nostra immagine migliore, che nel cerchio dell'amore condiviso ogni anima trova la sua casa, che diciotto secondi di eternità possono contenere una vita intera quando sono vissuti con il cuore aperto e le mani intrecciate.
Il teatro che danza sulle onde continua il suo viaggio. Le acque si sono ritirate, ma l'amore rimane. E rimane la promessa di nuovi cerchi, nuove storie, nuovi miracoli quotidiani in quel luogo magico dove il sacro si fa carne e le pupille ridenti parlano la lingua universale della bellezza.
Nel nome del teatro, dell'interpretazione e della bellezza che salva il mondo, diciotto secondi alla volta.
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